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08.10.2010
IRRECUPERABILI … SONO IL FRUTTO DELLA NOSTRA COMODA MENTALITA’
Simone Feder

La sfida educativa oggi deve essere aiutare il giovane a capire l’importanza del prendersi cura di sé

Leggo in questi giorni affermazioni da parte di “addetti ai lavori” che mi fanno riflettere; sono molte le persone che per anni sono state in prima linea nella lotta al disagio, ognuno con i propri ideali i propri valori e la propria filosofia di intervento, e purtroppo, in alcuni casi, con una logica che desta non poca preoccupazione.
Avverto a volte informazioni pericolose che cercano di spiegare la tossicodipendenza, o il disagio in generale, in termini prettamente logico-scientifici, causa-effetto, creando troppo spesso false speranze o dando messaggi distorti e incompleti a chi (senza avere reali competenze in materia) cerca risposte alle proprie sofferenze.
Indubbiamente la stragrande maggioranza di chi utilizza sostanze non ricorre ad esse perché portatore di una patologia, ma come possiamo dire che un soggetto che ricorre all’utilizzo di droghe è una persona sana? Che cosa cerca un giovane, o non giovane, nella trasgressione? Qual è il suo
concetto di normalità? E quindi che cos’è la normalità?
Alcuni vanno sottolineando che ‘molti interventi educativi sono falliti’e portano avanti assurde ipotesi di ‘selezionare l'utenza’: l’educazione riservata solo a chi ‘ è in grado di seguire correttamente e non strumentalmente i programmi terapeutici più adatti’, utilizzare quindi le nostre energie e risorse solo per chi sappiamo che ce la può fare.
Forse, però, è allora il caso di chiedersi qual è la nostra idea di educazione. Siamo proprio certi che la soluzione rispetto a questi ‘interventi falliti’ sia selezionare i giovani e non, invece, fare il punto della situazione rispetto al nostro concetto di educazione e magari operare per rendere i nostri interventi sempre più vicini alle reali esigenze di chi ne ha bisogno?
Ebbene io non ci sto, e sto con don Enzo che, nei lontani anni 60, quando le strutture comunitarie per il recupero dei ragazzi erano prima di tutto comunità di vita, diceva che : ‘gli irrecuperabili non esistono, sono il frutto della nostra comoda mentalità’.
La sfida educativa oggi deve essere aiutare il giovane a capire l’importanza del prendersi cura di sé, indurlo a sposare quel processo terapeutico in modo che diventi realmente promozionale e vincente.
Per questo negli ultimi anni, grazie anche alle nuove politiche sulla possibilità di scegliere e di conseguenza del libero accesso nelle strutture di cura, stiamo provando ad accogliere giovanissimi
al loro primo inserimento in comunità: aggredire il disagio in fretta in modo da lasciare poco tempo perché si radichi nella vita delle persone lasciando segni più in profondità. Abbiamo scelto di correre il rischio, i giovani ti scomodano, ti mettono in crisi, ti lanciano sfide, ti chiedono molto… ma non è forse questo che chiediamo noi a loro? Mettersi in crisi, rischiare, accogliere la sfida, cambiare… e come possiamo chiedere a loro di farlo se noi per primi non siamo disposti a metterci in gioco in questo modo?
Proviamo a stare un po’ con i giovani, accompagnamoli nelle fatiche e nelle sofferenze, andando oltre tutto ciò che la nostra coscienza e il nostro sguardo vede, e proviamo a chiederci perché un giovane nell’incontro con l’altro non cambia. Quanti sono stati gli interventi verso di lui ma non con lui... Insegnare all’altro significa anche condividere ed essere coerenti. Quando un giovane vede le tue fatiche, le tue preoccupazioni, il tuo amare la vita e le bellezze del creato, come può rimanere lo stesso?
Per questo continuo ad essere convinto che è prima di tutto il nostro modo di stare con l’altro che deve cambiare. Sfogliavo giorni fa una rivista che raccontava tutti i progressi e le ipotesi che le neuroscienze vogliono portare avanti nella cura alle dipendenze e poi mi guardo intorno. Basta ad
eliminare il problema? O serve altro, qualcosa che metta in discussione uno stile di vita, dia valori nuovi e una progettualità diversa?
Stiamo da anni cercando di rivedere i nostri interventi educativi all’interno delle comunità. Si pensa a programmi personalizzati, a corsi di studio, alla loro professione lavorativa, al loro rapporto con i
familiari. Si fanno gruppi tematici, percorsi psicologici, ma anche giornate sportive, gruppi musicali, progetti audiovisivi… siamo alla ricerca di risposte che mettono in crisi i nostri script mentali di risposta terapeutica, sconvolgono la nostra linearità di pensiero. Ci serviamo della statistica per capire come stanno e come rispondere in modo appropriato al loro bisogno, ma poi non possiamo esimerci dal guardarli in faccia e prendere per mano ogni singolo giovane… ebbene
stiamo faticando, ma, vi chiedo, lasciateci lavorare con loro, i frutti li raccoglieremo nel tempo.
Permettetemi allora di sognare … sogno un mondo dove i giovani inseriti in un cammino di liberazione possano sperimentare stili di vita diversi e ricchi di significato. Sogno che ogni giovane possa prendere in mano seriamente la propria vita e consideri essa come un bene meraviglioso.
Sogno che i giovani si prendano l’un l’altro carico dei pesi e delle sofferenze dell’altro e ne condividano gioie e risorse.
Questo mi confidava uno di loro: ‘Non è detto che tutto ciò che dico lo penso, e ciò che ti dico e penso non è detto che io lo senta’. Questa è oggi la sfida educativa, arrivare al cuore, al mondo
emotivo dei giovani che accogliamo, solo così potremo raggiungere un cambiamento (in loro ma anche in noi) e arrivare insieme, tutti, al traguardo.

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