News
02.07.2009
RIFLESSIONI SUL TEMA DELLA "CURA"
Maurizio Mattioni Marchetti
Premettendo l’assoluto rispetto per le scuole psico-educative e le tecniche di approccio all’aiuto alla persona, ritengo però utile sottolineare l’atteggiamento di umiltà verso l’altro che deve avere il terapeuta.

Si assiste nella pratica clinica a tentativi di cura in cui si “conduce” il paziente attraverso le speculazioni teoriche delle scuole di appartenenza del “curante”in una forma di addestramento nell’intento di plasmare la persona verso una direzione di cambiamento, in funzione dell’applicazione di una pura tecnica a priori rispetto alla coscienza del paziente. Troppi credono che per “curare”o “aiutare” si debba “condurre l’uomo, citando Chisholm: (Le proposte sono sempre capite dagli altri in maniera diversa da come le concepisce chi le fa.). Si utilizza la parola come farmaco in un copione teorico da utilizzare in funzione del fatto che la persona si aspetta dall’altro la guarigione. Ponendo la persona al centro della scena in tutta la sua umanità e non solo come somma dei sintomi disfunzionali ci si rende conto che ha già in sé le risorse per riflettere in modo da costruire il proprio cambiamento.
Trovare il modo di stare con l’altro per favorire attraverso l’utilizzo della proscenica una modalità di stare insieme in cui la persona possa riflettere su di sé per liberare la forza necessaria per produrre cambiamento dall’ordinarietà di sofferenza. Un metodo che non sia solo di intraprendere una opera di risanamento o di ricostruzione o rieducazione ma di affiancare l’individuo nel percorso che porta a conoscersi in funzione del proprio modo di stare al mondo.
Citando un lavoro di Rossana Suglia:” Accanirsi verso il “paziente”,affinchè esprima il suo mondo interno senza tenere conto di quello esterno, chiedergli di adattarsi a tali scelte terapeutiche non è più possibile, all’operatore tocca ripensare al proprio intervento in termini diversi, produrre un approccio nuovo teso a riattivare esperienze di piacere interne senza ricorrere all’uso di sostanze esterne, avvalendosi della funzione del gruppo come contenitore e della comunità come luogo fisico.”
La comunità in senso lato come risorsa di prevenzione e produttrice di modalità etiche per una coesione sociale piacevole in cui gli uomini siano eco-sostenibili per loro stessi.
Citando una ricerca del National Treatment Agency (Regno Unito): “ Le sostanze più utilizzate tra i giovani e giovanissimi sono alcol e canabis nel 2007/2008, circa 12 mila giovani sono stati curati per la dipendenza da canabis e circa 8600 per alcol. I minori che hanno fatto ricorso ai servizi specialistici per le dipendenze è pari a 24 mila giovani”. Se questi numeri sono i giovani che hanno fatto ricorso ai servizi è preoccupante pensare quali dimensioni può avere il sommerso, cioè quello che viene per osmosi accettato nei comportamenti definiti normali.
Fino a che punto si può conciliare la legalità dei comportamenti d’abuso di sostanze con il principio di cura socio-sanitaria delle persone?
L’OMS (organizzazione mondiale della sanità) ha definito nel 1993 le abilità che ogni persona deve acquisire per avere competenze sociali e relazionali per affrontare i problemi e gli stress della vita quotidiana, ma la domanda vera è chi deve essere da esempio per acquisire tali abilità?
Cito in sintesi le 10 life skills:
1-capacità di leggere dentro se stessi; 2-capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri; 3-capacità di governare le tensioni; 4-capacità di analizzare e valutare le situazioni; 5-capacità di prendere decisioni; 6-capacità di risolvere i problemi; 7-capacità di affrontare in modo flessibile ogni genere di situazione; 8-capacità di esprimersi; 9-capacità di comprendere gli altri; 10-capacità di interagire e relazionarsi con gli altri in modo positivo.
Tutto questo se fosse vero sarebbe bellissimo ma non credo che assistiamo a questo modello di capacità nella vita quotidiana nel rapporto con la realtà, anzi risolvere i problemi attraverso la soprafazione sembra la norma e questo perché di fondo non si vuole accettare ciò che la natura umana è.
Citando il Maestro Thay rispetto alla prima nobile verità:
” La prima Nobile Verità è dukkha, il malessere. I maestri buddhisti della tradizione ne hanno parlato così: la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza, la separazione dalle persone amate è sofferenza; è sofferenza lasciare tutti coloro che si ama, è sofferenza desiderare qualcosa e non ottenerlo mai. Ma questi sono modi antiquati di descrivere la prima Nobile Verità: oggi, quando pratichiamo la prima Nobile Verità dobbiamo identificare il genere di malessere presente nella realtà. Prima di tutto sappiamo che nel corpo c’è un tipo di tensione, una quantità di stress. Possiamo dire che oggi con sofferenza si indica anche tensione, stress, ansia, paura, violenza, famiglie spezzate, suicidi, guerra, conflitto, terrorismo, distruzione dell’ecosistema, riscaldamento globale eccetera”.
Ora io credo che il nostro livello di esempio per le giovani generazioni non abbia ancora superato la prima delle quattro nobili verità, cioè l’accettazione della nostra fragilità e la condizione di instabilità. Superata da molti con scelte di negazione oppure con uso di sostanze che fanno perdere le radici con ciò che siamo. L’immaturità è stata mutata in malattia o in illegalità senza trovare vie d’uscita, in quanto l’unica via possibile è l’accettazione dell’umano per ciò che è, quindi con la conseguenza di accettare le responsabilità della vita sociale verso l’acquisizione di un maggior benessere per tutti.
Maurizio mattioni marchetti
Link e documenti da scaricare
Galleria Fotografica