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gennaio 2024
Riflessione sulla comunità
per informazioni scrivere a maurizio.mattioni@famnuova.com.
Don Milani ha aperto un modo di accogliere le persone con delle finalità comuni, in cui la conoscenza è il presupposto per la padronanza nella socialità, per poi poter scegliere che uomo o donna essere. I percorsi di cura per il cambiamento non hanno di molto mutato la prospettiva, nelle comunità ancora si accoglie e la chiave per modificare il comportamento è la conoscenza. Mi ricordo l’esperienza nella comunità situata in montagna all’interno di un santuario dove la voglia di sperimentare ha coinvolto tutti gli ospiti verso una ridefinizione del proprio senso nella realtà. Una organizzazione quasi monastica laica della quotidianità scandita dai tempi della terra, in un luogo ancora possibile in cui seguire i ritmi del raccolto e degli animali. Nella mia esperienza passata con meno tecnica e più natura ho ottenuto risultati, oggi con più tecnica e meno natura ho ottenuto risultati più scarsi, questo in parte credo sia dovuto alla semplificazione organicistica dell’approccio rientrato sotto l’egida medica. Cambiare le abitudini non è una impresa facile si comincia a capirlo solo per necessità e non sempre è scontata la modifica di una routine, solo i bambini hanno la capacità di adattamenti plastici e veloci ma è una condizione particolare in cui la realtà è plasmata dalla fantasia e dal gioco. Per gli adulti già le trame del gioco si sono perse nella razionalizzazione e la fantasia è appaltata a strumenti esterni come tv o tabloid o altro come videogame. Per cambiare serve come indica Vygotskij una possibilità conoscitiva che è uno spazio di sviluppo prossimo, cosa che nelle persone con dipendenza è assente, in quanto il loro comportamento si svolge in forma di rigide consuetudini routinarie in cui il risultato è sempre la conferma della propria disfunzionalità che è sinonimo di identità. Per cui il percorso di cambiamento è l’apertura in un luogo protetto; la comunità; che è lo spazio prossimo culturale sia esterno che interno alla persona in cui poter esperire nuove modalità di risposta all’ambiente ed al proprio sentire emozionale. Serve una forma di regressione ad uno stadio in cui si riattivano le forme della curiosità e della giocosità per ritornare a “fare finta che…” in modo che la plasticità neurale possa rimodulare percorsi che assumano nuovi significati. La vita comunitaria è una mescolanza di realtà e finzione in cui le situazioni sono estremizzate al punto da giocare con le oscillazioni estreme del mondo delle sensazioni, d’altro canto non c’è altro modo per scardinare consuetudini cronicizzate in sistemi di risposta disfunzionale. L’opera educativa degli operatori è il riuscire a mantenersi all’interno del gruppo che oscilla in modo burrascoso sulle sensazioni conservando la barra sugli obiettivi di reimpostazione funzionale dei comportamenti. La visione del mondo di un consumatore di sostanze con il tempo diventa ristretta al riconoscimento dell’habitat dei consumatori arrivando a concepire una summa in cui tutte le situazioni che incontra nella quotidianità vengono razionalizzate nei significati del consumo, tipo:”tutti si fanno…”. Esternalizzando il senso della propria identità in una categoria di appartenenza si arriva a disarmare le proprie capacità di adattamento per cui si costituisce quella prigione di senso che è lo stigma, a questo punto solo riportando in capo all’individuo la consapevolezza di sé e con essa la capacità decisionale può iniziare il percorso di cambiamento. Non esiste possibilità di misurare le mutazioni e se queste mutazioni sono dei miglioramenti, senza entrare nel merito del giudizio o della politica: politica nel senso della cultura prevalente nel tempo in cui le cose accadono, per cui i tentativi tassonomici nel fare rientrare il fenomeno del cambiamento in causa ed effetto al momento è fallimentare. Per cui ci si avvale della narrazione e con essa della evocazione in storie ascoltate e raccontate per entrare nel merito della trama particolare di ciascuno in modo da poter evolvere in altre consuetudini riferite come migliorative. La complessità delle variabili nella relazione umana sia verso l’interno che verso l’esterno rendono il lavoro in comunità privo di quelle sicurezze procedurali che il sistema organicistico ha costituito nel sistema sanitario, per cui la creatività nell’adattamento al mutarsi continuo delle situazioni rende l’operatore esperto del cambiamento nello spazio prossimale tra un passato e il futuro possibile. Prendendo spunto dal concetto di Vito Mancuso “non c’è senso senza consenso” in quanto il senso della vita scaturito dal mio consentire ad essa ed alla possibilità nella libertà di scegliere il significato dell’agire nel mondo. Integro questa suggestione all’interno della pedagogia in comunità in cui il fondamento nell’ agire sinergico per il cambiamento passa inesorabilmente attraverso il consenso dell’altro ed al significato che nel percorso riabilitativo si struttura nella relazione. Quindi al principio del percorso la domanda è se c’è la capacità di agire la libertà di consentire ad accedere ad un senso rinnovato nelle cose della vita, e se poi c’è la responsabilità dell’agire in sinergia per il cambiamento con gli operatori. Oppure la comunità può essere solo un luogo di pausa per mantenere intatto il proprio assetto tossicomanico prima di riprendere il percorso nel solco della scelta di permanenza nella consuetudine del consumo.
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