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2022 ottobre
Quaderno appunti di:www.terrablu.org
Idee sparse in merito al lavoro educativo in comunità e fuori.
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Educatori, addestratori, prescrittori, consigliatori, di fatto una definizione per il lavoro educativo è al quanto vaga, come vaga e confusa è la cornice normativa che in questi anni ha ritagliato recinti di competenza per l’educare nei vari contesti come scuola, famiglia, ambito sanitario, ambito socio sanitario, marginalità, devianza, eccetera. Di fatto sembra che il luogo d’azione dell’ educatore sia ovunque e da nessuna parte come un personaggio di Pirandello, una chiazza opaca in supporto ad ogni situazione ma sempre precaria in modo che sia sempre sul “chi va là” dell’estinzione e con poche pretese di riconoscimento professionale. Dove abita oggi l’educatore se non nelle stanze segrete dell’incertezza umana per il proprio futuro?
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Stare con l’altro in presenza mentale non significa per forza usare la parola per comprendersi, ma è volontà di esserci nello spazio con la persona che ci sta difronte in compassione nel sentire il bisogno espresso dal corpo. Spesso la sofferenza altrui ci spinge al dover dire qualcosa che allievi il dolore, ma il dover dire di solito corrisponde ad una trama narrativa che corrisponde al nostro disagio nel sostenere il confronto, per cui sicuramente non utile per chi ci sta innanzi. Quindi rimanere in silenzio con un atteggiamento accogliente è il miglior gesto educativo da donare a se e all’altro.
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Quando le proprie abitudini ti danno scacco matto vuol dire che si è rinchiusi in un circolo che non lascia scampo rispetto all’esito nefasto. Non solo il circolo delle abitudini sono azioni che si ripetono, ma esse sono anche produttrice di senso del proprio esistere. Chi ne è intrappolato ha costruito nel tempo una sovrastruttura di significati che giustificano le azioni, per cui il consenso a tutto questo diventa il senso dell’identità per la persona. Quindi quando chiediamo a qualcuno di cambiare in realtà stimo chiedendo alla persona di essere altro da se.
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Nell’educazione agli adulti si dà importanza al miglioramento della performance in modo da adattare il più possibile l’individuo alla società, come se questo possa curare il malessere delle persone che sperimentano il disagio del vivere. In parte può essere una strategia di miglioramento l’adattamento, ma nel lungo periodo è destinata ad affievolirsi e riprodurre una ricaduta nel disagio. Ciò che manca all’adattamento performante è la creatività nel senso di rimodellamento del senso delle cose, la capacità poetica di rivestire gli enti dei significati che appartengono alla personale peculiarità del sentire in modo creativo.
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I sogni si piegano nella narrazione ad i significati che riteniamo più coerenti, in realtà andrebbero lasciati sullo sfondo per una riflessione sul cosa sentiamo a livello di sensazione dentro a quella trama, senza la descrizione che inevitabilmente si riduce ad una copia del reale. Trattare il sogno come un mondo a se ci introduce in una dimensione di apertura delle possibilità esplorative in cui ritrovare l’opportunità del sentimento senza la necessità di dover dimostrare le capacità performative che ci definiscono, il sogno è lo spazio per sperimentare qualsiasi identità senza incorrere nella contraddizione imposta dall’Io.
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Prima di accedere alla possibilità dell’intervento nell’educazione agli adulti bisogna capire se i significati che diamo alle parole che usiamo coincidano con le parole dell’altro, sembra banale ma quante volte ho vito operatori e utenti sbranarsi dialogicamente perché sordi al riconoscimento che alla base del conflitto c’è l’incomprensione della lingua parlata. Il silenzio per l’operatore è lo spazio in cui accogliere la produzione narrativa ed è per questo che diventa essenziale che agli educatori venga insegnato a stare silenti ed in vigile comprensione per decodificare quali valori sono legati alle parole prodotte dall’altro. La fretta di rispondere ad un bisogno spesso coincide con un consiglio che va fuori bersaglio creando frustrazione ad entrambi.
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Le narrazioni sono concretezze fatte di carne che incrociano come filamenti le persone dotate di una individuazione che solo in apparenza risultano delle singolarità. La concatenazione delle strutture del racconto sono la realtà in cui gli uomini e donne si riconoscono, infatti il senso di se è sempre misurato sul proprio negativo per lo più, e quindi l’identità è in continua oscillazione tra opposte polarizzazioni. La concretezza dell’esser uomo è una necessità data per non perdersi nell’angoscia delle continue fluttuazione e trasformazioni, ma questa necessità a volte si traduce in una prigionia ed di conseguenza in un malessere del vivere.
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Non c’è un approccio giusto o sbagliato nella relazione d’aiuto, ciò che va tenuto conto è il linguaggio non verbale che ha necessità di essere in sintonia con la produzione narrativa espressa. Se ciò non avviene il prodotto detto non è credibile o percepito dissonante come una stonatura in una melodia. Per un educatore è importante addestrarsi nello stare con se nel silenzio della parole, per ascoltare il proprio corpo come reagisce alle situazioni per sapergli dare un nome. Questa modalità di ascolto permette anche durante il colloquio di usare in modo strategico ed efficace il sistema empatico.
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L’educatore prima di tutto è una persona il cui primo orizzonte è essere nel mondo in modo consapevole, i saperi sono importanti, ma nella relazione d’aiuto con l’adulto è ancora il dare l’esempio il motore del cambiamento. Quale persona ha da essere l’educatore? Sicuramente compassionevole non nel senso Cristiano di caritatevole ma in con - passione con l’altro, stare nella comunità a fianco e con e insieme. Il dispositivo di cura è la comunità stessa che ha bisogno di essere una realtà non alterata ma convivenza di uomini e donne verso obiettivi di cambiamento, in una prassi di comprensione reciproca non violenta.
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