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18.09.2012
John barleycon – ricordi alcolici
di Jack london

La letteratura da sempre è un passo avanti dalla ricerca scientifica, nella descrizione dell'animo umano.

Ma prima di cominciare debbo chiedere al lettore di seguirmi con piena simpatia, e siccome la simpatia è semplicemente comprensione, debbo chiedergli di cominciare da me e dalle cose di cui scrivo. In primo luogo, io sono un bevitore stagionato. Non ho una predisposizione costituzionale all'alcol. Non sono uno stupido. Non sono un maiale. Conosco il gioco del bere dall'A alla Z, e nel bere ho usato giudizio. Mai è successo che abbiano dovuto portarmi a letto. E neanche barcollo. Insomma, sono un uomo normale, medio, per quanto riguarda il bere. E questo è il punto: sto scrivendo degli effetti che ha l'alcol su di un uomo normale, medio. Non ho neanche una parola da dire circa (o a favore) il dipsomane, il quale rappresenta un eccesso, d'importanza appena microscopica. Esistono, grosso modo, due tipi di bevitori. C'è l'uomo che tutti conosciamo, stupido, privo di fantasia, col cervello ottusamente roso da ottuse ubbie; quello che cammina vistosamente a gambe larghe, azzardando il passo, che di frequente cade per terra, e che vede, al sommo della sua estasi, topi azzurri ed elefanti rosa. È il tipo che dà vita alle barzellette sui giornali umoristici. L'altro tipo di bevitore ha fantasia, visione. Anche quando è piacevolmente su di giri, cammina diritto, naturale, non barcolla, non cade, sa dove si trova e quello che sta facendo. Non il suo corpo, ma il suo cervello è ubriaco. Può darsi che cianci spiritosamente, o che si lasci andare alla simpatia verso il suo prossimo. Può darsi che veda spettri e fantasmi intellettuali che sono cosmici e logici e che pigliano la forma del sillogismo. Proprio quando è in queste condizioni egli si spoglia del loglio delle più vitali illusioni della vita e considera gravemente il collare di ferro della necessità fissato al collo della sua anima. Questa è l'ora della sottile potenza di John Barleycorn. È facile a tutti rotolare per terra. Ma è una prova tremenda, per un uomo, stare diritto su due gambe senza barcollare, e decidere che in tutto l'universo egli trova per sé una libertà soltanto, e cioè l'anticipare il giorno della sua morte. Per quest'uomo questa è l'ora della logica bianca (di cui si dirà oltre), quando egli sa di poter conoscere soltanto le leggi delle cose, ma non il significato delle cose. È l'ora del pericolo, questa. I suoi piedi già fanno presa sul sentiero che conduce alla tomba. Per lui tutto è chiaro. Tutte queste confuse chiacchiere sull'immortalità non sono altro che la paura di anime spaurite dal terrore della morte, e maledette dallo stramaledetto dono della fantasia. Non hanno l'istinto della morte, non hanno la volontà di morire quando arriva il momento della morte. Si illudono a credere che vinceranno la gara, e che vinceranno un futuro, lasciando gli altri animali all'oscurità della fossa o al calore che annienta del forno crematorio. Ma lui, voglio dire quest'uomo nell'ora della logica bianca, sa che costoro s'ingannano e si nutrono d'illusioni. Quello è il solo evento che tocca a tutti, egualmente. Non c'è cosa nuova sotto il sole, neanche questa fanfaluca che tanto bramano le anime deboli e che si chiama immortalità. Ma sa, lui sa, lui che se ne sta in piedi con le gambe che non barcollano. È composto di carne, di vino, di favilla, di festuche di sole, di polvere del mondo, fragile meccanismo fatto per correre un tratto, fatto per subire l'assillo dei dottori della divinità e dei dottori della malattia, e per essere alla fine buttato via nel mucchio. Certo, tutto questo è schifo dell'anima, schifo della vita. È lo scotto che deve pagare l'uomo di fantasia per la sua amicizia con John Barleycorn. Lo scotto che paga l'uomo stupido è più semplice, più facile. Con il bere si riduce alla incoscienza dello stolto. Dorme un sonno drogato, e se sogna, i suoi sogni sono fiochi e inespressi. Invece all'uomo di fantasia John Barleycorn invia i sillogismi spietati e spettrali della logica bianca. Guarda la vita e le cose della vita con l'occhio invidioso di un filosofo pessimista tedesco. Vede al di là di tutte le illusioni. Trasvaluta tutti i valori. Dio è male, la verità è un inganno, e la vita uno scherzo. Dalle sue alture folli e quiete, con la certezza di un dio, tutta la vita gli appare un male. Moglie, figli, amici – nella chiara, bianca luce della logica, sono disvelati come frodi e inganni. Vede oltre, e tutto quello che vede è la loro fragilità, la loro meschinità, la loro pietosa sordidezza. Non lo ingannano più. Sono piccoli, miserabili egoismi, come ogni altra minuscola creatura umana, che vivono una loro vita da lucciola, di un'ora. Non hanno libertà. Sono pupazzi del caso. Anche lui lo è. Lui lo capisce. Ma una differenza c'è. Lui vede; lui sa. E conosce la sua unica libertà: che può anticipare il giorno della sua morte. E questo non va bene per un uomo che sia fatto per vivere e amare ed essere amato. Eppure il suicidio, repentino o lento, uno spruzzo improvviso o un lento gocciare negli anni, è il prezzo che esige John Barleycorn. Non c'è amico, fra i suoi, che sfugga alla giusta dovuta scadenza.

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