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09.04.2011
Droga. Le strategie per uscirne (“Repubblica”, 3 settembre 2007)
Umberto Galimberti

quasi tutti fumano gli spinelli (non chiudiamo troppo gli occhi nella beatitudine della nostra disattenzione assopita), molti tra di essi al sabato sera in discoteca si fanno di ecstasy,

Le strategie oggi in campo per trovare una via d' uscita al problema della droga sono l' approccio “organicista” della disintossicazione farmacologica e l' approccio “biografico-esistenziale” della comunità terapeutica, che appare più rispettoso dell' individuo e delle sue scelte. Pur nella loro radicale differenza, entrambe le strategie restringono il problema della droga al problema della “tossicodipendenza”, dove la parola più importante è “dipendenza”, in cui vengono a trovarsi quei soggetti che affidano alle droghe l' incapacità di gestire la loro esistenza. Così facendo sia l' approccio organicista sia quello biografico- esistenziale promettono di più di quanto medici e operatori di comunità, in piena coscienza, possono davvero attendersi. Infatti, il metodo farmacologico della disintossicazione rapida non fa che ripulire i recettori, senza intaccare la biografia del soggetto, che ha trovato nell' assunzione della droga l' unico modo per poter sopravvivere. Ma se l' incontro con la droga è un incontro biografico (i recettori vengono dopo), che farà quella biografia nello stesso contesto di vita con i recettori ripuliti? Ma anche la comunità terapeutica promette di più di quanto non mantenga. Qui la scommessa è con l' uomo, non con i suoi recettori. In comunità si instaurano stili di vita, abitudini, relazioni diverse rispetto a quelle consolidate nelle strade buie e periferiche delle nostre città. Ma poi si riesce a uscire dalla comunità, capaci di vivere senza quel tessuto di relazioni a cui il bisogno di dipendenza si è ancorato come un tempo alla droga? Non sarebbe più corretto dire che le comunità assolvono la funzione che un tempo assolvevano i conventi, dove uomini bisognosi di regole riuscivano a esprimere il meglio di sé, fino alla santità, purché tutelati dalle mura del chiostro e dall' ordine rigoroso delle regole? Può darsi che per congedarsi dalla droga sia necessario anche un parziale e forse definitivo sacrificio della propria autonomia. E allora diciamolo, e in questo modo creeremo una cultura per cui, come un tempo, un figlio o una figlia in convento non rappresentavano una tragedia. In realtà le cose non stanno così, perché lo scenario della tossicodipendenza non esaurisce il mondo della droga che, oltre ad essere ben più vasto e variegato, è scarsamente leggibile sulla base della distinzione elementare tra “droghe pesanti” e “droghe leggere”, non perché la differenza non esista, ma semplicemente perché la cultura giovanile non rispetta questa differenza. Con ciò non voglio dire che dalle droghe leggere si passa a quelle pesanti, ma che le une e le altre sono di continuo mescolate nella pratica quotidiana, per cui se quasi tutti fumano gli spinelli (non chiudiamo troppo gli occhi nella beatitudine della nostra disattenzione assopita), molti tra di essi al sabato sera in discoteca si fanno di ecstasy, quando capita si calano un acido, e se non si bucano, difficilmente rifiutano di sniffare un po' di cocaina e all' occasione anche un po' di eroina, per non dire, per i meno fortunati, delle ubriacature dei fumi di benzina in mancanza d' altro. A questo punto, se vogliamo allargare il discorso dal problema della “tossicodipendenza” a quello più generale della “droga” spingiamoci un passo più in là, oltre il limite dell' ipocrisia. E allora, come abbiamo creato una cultura dell' alcol per cui sempre meno incontriamo gente che beve quattro litri di vino al giorno, come abbiamo creato una cultura del tabacco per cui sempre meno incontriamo gente che fuma ottanta sigarette al giorno, così si potrebbe creare una “cultura della droga” a partire dalla scuola. La scuola, anche nei rari casi in cui riesce a trasmettere qualche contenuto culturale, quasi mai tiene conto della creatività, delle emozioni, delle identificazioni, delle proiezioni, dei desideri, dei piaceri e dei dolori che costellano la crescita giovanile, dove spesso l' emozione vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non riesce a esprimersi, e tentazioni di abbandono in quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell' alcol e della droga sono solo esempi, e neppure quelli estremi, se solo pensiamo ai suicidi. Per questo è necessario che a scuola, e in quel suo sostituto che è la televisione, si parli di droga in modo analitico, determinato, scientifico e persino filosofico, in modo che i giovani sappiano che cosa assumono, che effetto fa, che danni procura, che piaceri promette e da che visione del mondo scaturisce. L' ignoranza non ha mai salvato nessuno e l' ignoranza dei giovani a proposito della droga è pari alla sua diffusione. Una cultura della droga toglierebbe la droga dal segreto e la priverebbe di quel “fascino iniziatico” che, tra i molti, è forse l' aspetto più attraente e più invitante. Ma possiamo sperare in una cultura della droga se nelle nostre scuole non è ancora avviata una cultura del sesso, quando per i nostri giovani il sesso non è neppure più un tabù? Ma il messaggio della scuola, e anche quello della televisione, è che “le droghe uccidono”. Friggono a fuoco lento il cervello finché la frittata è fatta. Il rimedio è uno solo: “basta dire di no”. Un “no” che riesce facile solo a quelli che hanno già detto no all' eccesso di immaginazione, alle vertigini della fantasia, alla forza dell' emozione, all' abisso della disperazione, al bisogno spasmodico di comunicazione. E dopo tutti questi no, che spesso molti giovani non sono in grado di dire, possono anche dire di no alla droga. Che significa tutto questo? Significa che l' attenzione deve essere spostata dalle “conseguenze” dell' uso e dell' abuso della droga alle “cause”. E solo allora la droga può apparire per quello che è: non una “dipendenza” ormai diffusa su larga scala nel mondo giovanile e non, ma un “sintomo”, se non addirittura un tentativo disperato di “rimedio” a un disagio che pare impossibile poter sopportare. Per capire questo disagio dobbiamo smettere di pensarci a partire dall' animalità come pretende la nostra cultura quando ci definisce “animali ragionevoli”. Imprigionati da questa definizione, guardiamo le nostre passioni come gli animali guardano alla fame e alla sete, pure esigenze da soddisfare. Mai ci ha sfiorato il sospetto che le nostre passioni non hanno tanto un “bisogno da soddisfare” quanto un “senso da dischiudere”. Non abbiamo mai riconosciuto loro dell' intelligenza. Rinchiuse nel fondo opaco e buio dell' animalità, le abbiamo considerate sempre come qualcosa da contenere. Cos' altro significa infatti essere ragionevoli? Non essere ostinati, adattarsi alla realtà così com' è, controllare le emozioni profonde, guardarsi dagli amori passionali non meno che dagli odii. La ragione è misura, e chi non vi si attiene ospita quel desiderio fuori misura che lo colloca fuori dalla ragione. Ma il desiderio rimanda alle stelle (de-sidera), allo struggimento delle passioni. In mezzo l' immenso vuoto che separa l' abisso delle passioni dall' altezza del cielo. Certo la droga non colma questo vuoto, ma è in questo vuoto che essa nasce come desiderio, come anelito, come brama di vedere dove conducono le passioni, dove aspirano, dove tendono. Le stelle sono in cielo, non a portata di mano. Dal cielo cade la pioggia, ma non cade anche l' azzurro. E chi vuole dal cielo anche l' azzurro? Non credo, infatti, che chi si droga voglia solo riempire un vuoto, o cerchi un generico desiderio di evasione fino alla perdita della memoria di sé. Penso che chi si droga voglia sperimentare ben altro, la morte per esempio. Non tanto come fatto, come esito biologico di un organismo che si disfa, ma come “esperienza del morire e del rinascere” che la nostra cultura, che esorcizza la morte, più non concede, mentre i drogati invece la cercano, quasi per un' impossibilità ad accettare una vita che sia puro accumulo e non anche rinnovamento. Se il nostro tempo, regolato dalla rigida razionalità imposta dalla tecnica, ha espulso le grandi passioni dell' uomo, c' è da meravigliarsi se qualcuno le sperimenta secondo quelle modalità eroiche che portano fin dall' inizio i segni della sconfitta? Perché con i drogati si passa subito alla cura? Che paura esiste a capire e a leggere cosa vogliono raccontare con la loro immolazione negli angoli più insignificanti delle nostre città? Perché si guarda ai margini solo per rassicurarsi della nostra non- emarginazione? Quel che resta da capire è la forma assunta dalla nostra vita che il drogato rifiuta. Il suo percorso è quello del sacrificio, neppure eroico perché non avviene sull' ara, ma ai bordi. Resta comunque il suo messaggio alla città che non mette più in circolazione la morte e la rinascita, ma solo la crescita, il progresso, lo sviluppo. In fondo gli uomini non hanno mai creduto, e forse ancora non credono, che questo itinerario possa avere un andamento sicuro. Certo ci affrettiamo a porre rimedio a tutti i mali, ma forse la fretta dei rimedi ha come sua lontana radice il desiderio di non vedere e di non accettare il male per quello che ha di costruttivo e non solo di distruttivo. Ma questo sguardo esige lavoro. E un po' come l' azzurro del cielo che non cade con l' acqua, ma chiede di essere rapito.

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